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  • di SABRINA SCIABICA

IL PRIGIONIERO COREANO, un altro successo di Kim Ki-duk, al cinema


Nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale, la Corea si ritrova libera dal dominio giapponese, durato 35 anni. All’altezza del 38°parallelo, la penisola viene nettamente divisa in due aree che iniziano una guerra fisica ed ideologica tra la fazione russa, insediatasi al nord e quella americana, al sud.

Nel 1953 la Guerra di Corea termina senza effettivi vincitori, sancendo al nord la Repubblica Democratica Popolare di Corea con governo comunista e capitale Pyongyang (oggi presieduta dal dittatore Kim Jong-un, figura sulla quale circolano notizie preoccupanti e aneddoti quasi surreali); al sud, la Repubblica di Corea, con capitale Seul, più occidentalizzata e democratica.

Proprio nella sua terra d’origine, luogo di contrasti e povertà estrema, il regista Kim Ki-duk ambienta Il prigioniero coreano, nelle sale dal 12 aprile.

Presentata alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2016, è una pellicola a suo modo diversa dalle precedenti. Meno eccessiva, in quanto assistiamo a poca violenza fisica ma ugualmente toccante, per quella psicologica.

La storia inizia con un pescatore nordcoreano che, per un guasto al motore, si ritrova a superare involontariamente la linea di confine (un semplice filo galleggiante nel fiume in cui lavora per il sostentamento di moglie e figlia); in tal modo viene immediatamente catturato dalla sicurezza del sud.

I militari non possono credere ad una causa così accidentale per lo sconfinamento e sospettano del ragazzo, vedendo di lui una temibile spia e cercando, con torture fisiche e psicologiche, di fargli confessare reati che effettivamente egli non ha commesso.

La storia prosegue come un thriller in cui si rovesciano i nostri preconcetti: il governo del sud, proprio quello che dovrebbe essere più libertario, trattiene l’abitante del nord e, non avendo prove contro di lui, cerca ostinatamente di convincerlo a rimanere nel luogo migliore (il sud), non tenendo conto delle necessità dell’individuo (che invece lotta con tutte le sue forze per tornare dall’amata famiglia).

Mai noioso, mai esagerato - sembra che il regista abbia calmato gli eccessi delle precedenti pellicole - Kim Ki-duk è abile nel creare una fortissima tensione nelle due ore di narrazione.

Gli attori perfetti nei loro ruoli e il ritmo incalzante nelle scene, confermano l’originalità di questo artista della macchina da presa, allontanato dalla propria patria e vincitore di numerosi presi nel nostro continente.

Il prigioniero coreano è, certamente, un film politico e anche molto, molto di più.

Prima di tutto è un film sulle ideologie e sui confini che ricorda, nel tema, No man’s land (2001), del regista bosniaco Danis Tanović, ambientato in una trincea tra due fronti (la terra di nessuno, appunto), durante la guerra serbo-bosniaca.

Inoltre, affronta argomenti universali come la libertà, le scelte individuali, la morale, la possibilità di trovare la bontà dei gesti più semplici, persino nel cosiddetto “nemico”.

Il messaggio che arriva, oltre alle drammatiche riflessioni che il film suscita, è la volontà della gente comune di superare ogni “estremismo ideologico” e vivere una quotidianità scevra dalle intolleranze.

Si avverte una voglia profonda di liberarsi dalle colpe dei padri, di sdoganarsi dalla storia passata, di fermare il desiderio di vendetta, di allontanare la tentazione di sentirsi migliori…poiché tutto ciò costringe i coreani a vivere, in entrambi i paesi, in un clima di terrore e angoscia.

Ad esempio, il concetto di essere ingiustamente sospettati, è reso magistralmente dal regista nelle scene degli interrogatori: sono estenuanti, realistici e, allo stesso tempo, sembrano situazioni da teatro dell’assurdo.

Per il povero prigioniero Nam Chul-woo non si vive meglio né al nord né al sud e, ancora una volta, tra le due fazioni non si vedono vincitori, ma soltanto un interminabile, disastroso e straziante conflitto da cui l’intera popolazione coreana esce sconfitta in massa.

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