ROMA - “Avrò visto alcune centinaia di concerti in vita, ma mai vista una cosa così”, “dolcissimo e violentissimo: cazzo che bellezza!” e ancora: “Immenso, trascendentale, divino”. Sono alcuni dei commenti ascoltati e letti alla fine delle oltre due ore de concerto romano di Nick Cave and the Bad Seeds, tutti tra il mistico e l'estasiato. Esagerati? No.
FOTO BY CARLO MASSARINI
Chi è accorso nel bel mezzo della settimana lavorativa al Palalottomatica per la data romana del Re Inchiostro Nick Cave era consapevole che avrebbe partecipato a una una cerimonia rock, a una messa laica, a una celebrazione lirica scandita da un gran sacerdote, uno dei migliori animali da palcoscenico in circolazione.
Perchè nessuno come Cave si fa tutt'uno col suo pubblico.
Cominciamo dalla fine, dal bis, per raccontare l'ebrezza e il rito di totale comunione e coralità con cui Nick dona se stesso, le sue parole, la sua musica.
Dopo quasi due ore di live intimo ed esplosivo al tempo stesso, con il “nostro” sempre posizionato sul filo del palco, faccia a faccia, dita a dita e proteso verso le prime file, sulle prime note di The Weeping Song Nick Cave zompa giù dal palco in mezzo ai suoi “adepti”.
I fan rispettosi e increduli lo toccano, lo abbracciano e lui si concede e continua a cantare mentre taglia la folla che si apre al suo passaggio come un novello Mosè, attraversando il parterre del palazzetto. I suoi meravigliosi Bad Seeds continuano a suonare, dettando il ritmo da cavalcata western del brano. Cave sul fondo della platea trova una piattaforma rialzata di casse (è evidentemente tutto preparato, perchè si è ripetuto anche per le altre date ma fa il suo effetto comunque - ndr) ci si arrampica.
“This is a weeping song, but i won't be weeping long” canta “questa è la canzone del pianto ma io non piangerò a lungo” e per lui che, poco più di un anno fa ha perso il suo Arthur il figlio quindicenne morto in seguito a una caduta da degli scogli, ci appare come un canto liberatorio, catartico.
Lascia il microfono più volte alle braccia alzate intorno a lui (si fida) per giocare con un battito di mani in 8 clap che cadenzano il brano.
Sembra che abbia voglia di lanciarsi sul pubblico e “surfare” e grida più volte “Two hands, not one!” ma poi forse non è convinto e la canzone termina senza l'atteso crowdsurfing. Ma non il suo bagno totale col pubblico.
Più volte dalle prime file acchiappa un panno e si asciuga il volto restituendolo e ghignando sornione. Nel silenzio alla fine della canzone si avvia tra la folla sul palco grande, ma prima che arrivi alla meta iniziano le note della “murder ballad” Stagger Lee e – sorpresa – il pubblico comincia a salire sul palco: dieci, trenta, sessanta, probabilmente più di cento increduli ragazzi attorno a Nick, stretti tra la band e la fine del palco, dove il rocker australiano corre e canta quasi in bilico, in punta di palco.
Sul finale del brano l'urlo acuto e straziante del violino di Warren Ellis suona come una Gibson impazzita. “Seat down please” dice sul finale ai ragazzi sul palco.
Il brano finale Push The Sky Away è un canto/preghiera sussurrato al cielo in coro con i seimila del Palalottomatica: Keep on pushing it, push the sky away, and some people say it's just rock and rolla, ah but it gets you right down to your soul” ovvero “continua a spingere, spingere via il cielo, alcune persone dicono che è solo rock n' roll ma arriva dritto alla tua anima”. Già, chiamatelo “solo rock n' roll”....
Il palazzetto è pieno per la data italiana più a sud che accoglie, infatti, numerosi fan arrivati in giornata con pulmann perfino dalla Sicilia. Chi scrive aveva ancora nel cuore e impressa negli occhi l'ultima esibizione a Roma del “nostro”, quattro anni fa al Parco della Musica che vide già dalla seconda canzone in scaletta un travolgente Cave in platea e dritto in piedi sulle spalliere delle poltroncine in velluto rosso del parterre della Santa Cecilia, la sala più grande dell'Auditorium romano.
Al Palalottomatica di Roma, terza e ultima tappa dopo Milano e Padova, l'inizio del concerto di King Ing è più lento, sussurato, recitato, intimo. E' teatrale e magnetico il nostro australiano. Una escalation di musica e intensità che parte da tre brani tratti dall'ultimo “Skeleton Tree” ovvero Anthrocene, la bellissima e cupa Jesus Alone e Magneto, una canzone che si trasforma in rito, sussurato e urlato a sguardo dritto rivolto ai fortunati nelle prime file. “Forse Cave è l'unico per cui aveva davvero un senso stare in piedi sotto al palco, piuttosto che seduti comodi in tribuna” commenta rammaricata qualcuno al fianco di chi scrive.
FOTO BY CARLO MASSARINI
Con Higgs Boson Blues il ritmo inizia la sua escalation. Arriva dal lontano 1984 From Here to Eternity title tack dell'album di esordio di Cave con i suoi Bad Seeds che live incalzano un blues che parte con la tastiera deragliata di Conway Savage ritmato dalla batteria e dalle percussioni di Thomas Wydler e Jim Sclavunos. Arriva il temporale che anticipa Tupelo e la voce di Cave si fa ruggente quasi come quella di Tom Waits.
Elegantissimo come sempre, completo nero, camicia bianca e mocassini lucidi su fisico asciutto, Nick Cave domina il palco ipercinetico. Arrivano la sontuosa Jubilee Street, The Ship Song una sequela di capolavori, di grandi classici che formano una scaletta di diciotto brani.
Ciascuno di questi è esaltato nella versione dal vivo da Cave che quasi ne raddoppia le durate.
Il nostro King Ink si agita e aggira tra il pianoforte dove (a tratti) si siede e il fronte palco, poi – finalmente – si quieta per qualche minuto con Into My Arms al pianoforte ed è il brano sulle cui note si accendono e ondeggiano gli smartphone in platea (ah i vecchi accendini...). Il brano fa il paio con la ballata dolcissima di Girl in Amber dall'ultimo disco, canzone che sarebbe ispirata e dedicata dalla tragedia vissuta da Cave e inclusa poi nel documentario “One More Time With Feeling” diretto dal regista neozelandese Andrew Dominik. Red Right Hand brano del 1994 incluso in “Let Love In” è una goduria da sentire live per chi ama i suoni e gli arrangiamenti dei Bad Seeds che anticipano qui le sonorità e gli arrangiamenti che pernieranno le “Murder Ballads” del 1996.
Il finale, prima dell'esplosivo trittico del bis già raccontato, arriva con la magnifica Distant Sky e con Skeleton Tree, title track dell'ultimo lavoro di questo straordinario “papa rock” che è Nicholas Edward Cave, un vero poeta e santone apocalittico, un uomo che ci appare leader grandioso sul palco che domina come pochi altri tra i suoi fan, ma che le sue parole, i suoi occhi, la sua voce ci rivelano fragile ma non indifeso. La sua corazza è la musica certo, il rock n' roll e la sua poetica. Ma ancora di più il suo pubblico che lo idolatra, lo copre, lo protegge e in cui si immerge sempre concerto dopo concerto, da oltre quarantanni e forse ancor di più oggi che è un magnificamente dinoccolato e splendido sessantenne. Amen la la messa rock è finita.
PER LE FOTO E VIDEO SI RINGRAZIANO: CARLO MASSARINI E FABIANA MANUELLI.