QUELLO CHE NON SO DI LEI, l’ultima pellicola di Roman Polanski, è davvero un thriller psicologico, come annunciato?
Non proprio. Troppo lento per lo spettatore che ama il genere di Hitchcock o di Kubrick, passati alla storia per la maestria di aver creato inquietudine, anche e soprattutto nelle scene in cui la violenza non è esplicitata - a cui certamente mira il regista, arrivando però a risultati ben lontani dai grandi maestri.
È un film drammatico?
Non esattamente, anzi, si scopre man mano che la cattiva non è poi così tanto cattiva. È giusto un po’ scorbutica, soprattutto rispetto alle disgrazie - davvero esagerate - che la vita le ha imposto negli anni.
Eppure non è la mancanza di genere, il problema dell’ultima regia di Roman Polanski.
La storia attira subito l’attenzione: è imperniata sul rapporto tra due belle donne. Una è scrittrice affermata e l’altra fa la ghost writer, è molto più giovane e cerca di conoscere la più grande, dando vita ad un legame complicato ed intrigante.
Il film è tratto dal romanzo di Delphine de Vigan dal titolo Una storia vera, del 2015, segnalato al regista dall’attrice e compagna Emmanuelle Seigner.
Ma, ahinoi, proprio la trama si dipana partendo da un avvenimento a dire poco impossibile.
È assolutamente irreale - secondo noi - in Francia e in qualsiasi luogo al mondo, che uno scrittore (soprattutto di fama) affidi ad una fan appena conosciuta, non soltanto la password del suo pc ma il pieno controllo di ogni sua comunicazione, nonché la sinossi della sua prossima opera. Soprattutto, poi, se questa fan è essa stessa una scrittrice - anche se di vite altrui - e potrebbe, sia inconsciamente sia volutamente, beneficiare del lavoro della collega.
Delphine, la scrittrice famosa ma triste (Emmanuelle Seigner) e Elle, la giovane e spavalda Eva Green, sono indubbiamente delle ottime attrici, tuttavia ciò non basta a far decollare il film.
La pellicola, dunque, può divertire per i numerosi richiami ad altre trame, se gli spettatori volessero fare il gioco del “questa scena mi ricorda questo film”, e a tal proposito Misery non deve morire arriva in mente prima di tutto, insieme a Venere di pelliccia dello stesso Polański . Però qui la tensione non si sviluppa. Lo spettatore riceve spunti interessanti ma sempre nell’attesa di qualcosa che non arriva; esce dal cinema con l’impressione di aver assistito ad una commediola.
La banalità delle scene contribuisce a farsi questa idea: la caduta dalle scale è decisamente scontata. E vogliamo parlare di quando la donna più giovane si arrabbia, prende un piatto di biscotti e li getta nell’immondizia, come una bimba dispettosa nelle peggiori fiction? … L’unico apprezzamento è per la dimensione di quegli squisiti macaron al cioccolato...
Arriviamo al finale, un’altra occasione mancata.
Lasciare in sospeso varie possibilità avrebbe potuto essere un ottimo espediente, ma non è stato sfruttato bene e lo spettatore rimane semplicemente confuso, non abbastanza stimolato, se non per una grande alzata di spalle, un grande boh.
Gli ambienti (quasi sempre chiusi) ben si adattano all’idea di isolamento, claustrofobia e pericolo e si sottolinea ancora la bravura degli attori, soprattutto delle due protagoniste, Eva Green ed Emmanuelle Seigner, anche se l’accenno ad un’attrazione fisica tra le due affascinanti figure è troppo poco perturbante, appena accennato.
L’aspetto noir, insomma, non è abbastanza calcato e il pubblico, annoiato, non ha più voglia di risponde alle domande che il film vorrebbe suscitare.
Anzi, forse, vorrebbe porne lui una al regista: in un mondo così variopinto, attraente e problematico come quello attuale, con tutte le storie da narrare, i personaggi reali o irreali di miriadi di popolazioni, tradizioni e culture diverse, a che pro ripescare un tema su cui sono stati già scritti numerosi copioni, senza neanche ridagli una veste più originale o appropriata?