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  • di SIMONE MERCURIO

Mark Lanegan, un crooner deragliato dall'epopea del grunge


(da Flanerí)

ROMA (Parco Rosati 11/07/2017)

Dentro a un posto inusuale per il rock, all’interno degli spazi del Parco Rosati di Roma all’Eur che è generalmente pervaso e invaso da ben altri suoni, lo scorso 11 luglio la voce ruggente di Mark Lanegan con la sua band si è esibita nell’attesa data capitolina del suo Gargoyle Tour.

Due parole più del solito meritano i due artisti che hanno preceduto il live del Nostro. Open act di assoluto livello per due musicisti anche membri effettivi della Mark Lanegan Band, ma che meritano il palcoscenico offertogli per i loro progetti solisti. Mentre il sole tramonta sul palco dell’arena del Fiesta (ebbene sì!) per una sera trasformato in tempio bluesrock, arriva per primo il bassista e cantautore belga Fred Lyenn Jacques, in arte solo Lyenn con il suo songwriting sussurrato, intimo e quasi lisergico: il pubblico attento e rispettoso, un migliaio che pian piano pervade gli spazi dell’arena, resta stregato dal suono e dalle atmosfere create dal belga. A seguire arriva il cantautore e chitarrista inglese Duke Garwood con le sue ambientazioni sonore bluesy-folk e una vocalità perfettamente in linea con quella del suo mentore Lanegan ma anche – ovviamente – lungo quel solco immaginario che collega entrambi a fantastici “dinosauri” e crooner fumosi e deragliati del rock come Tom Waits e Nick Cave.

Il cielo si è oscurato del tutto quando in total black sale sul palco Mr.Mark Lanegan, che si posizionerà al centro della scena per non muoversi più per le restanti due ore dello show. La staticità del rocker e songwriter statunitense durante l’esibizione fa da perfetto contraltare a un live nerboruto e variegato con una scaletta che, però, neanche per sbaglio sconfinerà nel repertorio degli anni ‘90 del Lanegan solista. Per non parlare dei lavori ancora precedenti con gli Screaming Trees (band storica di Lanegan tra le fondanti del movimento grunge) che più di qualcuno dal pubblico, inascoltato, proverà a richiedere a gran voce verso il palco.


Un «thank you so much» ancora più gutturale e raschiato di quando canta, sarà quasi l’unica frase rivolta al pubblico dal cantante. Empatia zero del Nostro. Ma i fan di Lanegan conoscono già il loro artista e ne resteranno comunque stregati, come chi scrive del resto.

Un vecchio e vissuto leone come Mark, uno degli ultimi sopravvissuti dell’epoca del grunge, uno che nel suo primo disco solista del 1990 duettava con Kurt Cobain e incideva per primo inni generazionali come “Where Did You Sleep Last Night” (brano tradizionale di musica folk statunitense, composto probabilmente negli anni settanta del 1800) poi ripresi successivamente dai Nirvana, uno così, insomma, non deve giustificarsi di nulla. Uno che nella sua carriera nonostante tante traversie personali e artistiche rimane sempre fedele a se stesso e alla sua storia e che con il suo ultimo disco Gargoyle, pubblicato ad aprile del 2017, quando in tanti si sono svenduti agli dei del mercato, ha consegnato ai suoi estimatori ancora una volta un grande album.

Eccolo dunque Gargoyle, come i mostri di pietra usati nelle cattedrali gotiche per far defluire l’acqua dai tetti ma anche come oggetto di difesa dagli spiriti. E il nostro cantore, decisamente personaggio quasi gotico, sembra invocare i suoi demoni protettori attraverso la sua musica. Nell’ultimo disco così come nei suoi ultimi lavori il musicista statunitense contamina la sua voce e i suoi brani con ritmiche e suoni elettronici, ma l’anima non ne è intaccata per nulla. Anzi. Proprio da quest’ultimo lavoro arriva il brano iniziale “Death’s Head Tattoo” con le sue tastiere elettroniche post-punk seguite da due brani tra i suoi più belli della sua recente produzione come la cavalcata elettrica di “The Gravedigger’s Song” e le schitarrate rocknroll di “Riot in My House” entrambe da Blues Funeral del 2012.

I brani più “vecchi” dal repertorio solista di Lanegan in scaletta per questo live arrivano dal 2004 con il disco Bubblegum dal quale è proposta “Hit The City” che nel disco vedeva Lanegan in duetto con PJ Harvey. Da Phantom Radio di due anni dopo arriva “No Bells on Sunday”. Poker di brani ancora dall’ultimo lavoro a seguire con la sulfurea “Nocturne”, il blues rockeggiante di “Emperor” , la dolce leggiadria di “Goodbye To Beauty” e la new wave di “Beehive”.

Il pubblico della platea rimane seduto e composto mentre attorno alla pista c’è chi prova a ballare su “Ode To Sad Disco” e sulla cavalcata ritmica di “Harvest Home” che pervadono le atmosfere di un Parco Rosati che – sommessamente – suggeriamo agli organizzatori di utilizzare più spesso per live del genere. Acustica perfetta e spazi adeguati e ariosi per live estivi di artisti di questo calibro e pubblico. Da Bubblegum arrivano ancora la dolce ballad di “One Hundred Days” e le belle chitarre di “Head” sottolineate dal bravissimo Jeff Fielder, fido chitarrista della Mark Lanegan Band, sul palco con i già citati Lyenn e Garwood. Nei bis anticipata dalla iancurtisiana “The Killing Season”, arriva il gran finale con la ben riuscita cover di “Love Will Tear Usa Apart” degli Joy Division.

Si accendono le luci del Parco Rosati e il Nostro, annunciato da Fielder, firmerà per un’oretta buona indolente e sornione centinaia di dischi ai fans cui concederà anche qualche imbarazzato, imbarazzante e romanesco serfie. It’s only rocknroll, bellezza.

Ph. Credits: Alessio Belli

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